Altra sveglia, stavolta non a notte fonda ma all’alba per
saltare sul minibus per il porto, con grande sorpresa mi ritrovo seduti a
fianco Byron e suo figlio Andrés anche
loro in gita turistica, molto stupore che si mescola al piacere di
rivedersi e nel frattempo si arriva
all’imbarcadero. A fianco del molo sono ormeggiate decine di lance che non
sembrano essere proprio fresche di cantiere ma oramai siamo abituati ad una
certa “trasandatezza , ci sfiliamo dalle altre barche, il motore borbotta in
maniera poco convincente ma in qualche maniera cominciamo a navigare, è una
bella giornata di sole e le acque sono tranquille e di un azzurro intenso. Da
centinaia di anni gli Uros vivono isolati dal mondo sui loro arcipelaghi di
isole galleggianti, dalle rive del lago tagliano le zolle di terra e le legano
fra di loro a formare una specie di zattera galleggiante, le radici della canna,
crescendo, saldano fra di loro le zolle e si ispessiscono fino a raggiungere i
quattro metri di profondità, la parte della canna che sta quasi sommersa è
bianca, eliminando la parte esterna fibrosa rimane quella interna che ha una consistenza
spugnosa e si mangia mentre con la parte aerea più legnosa ci costruiscono le
capanne, le barche oppure vengono distese sull’isola in vari strati incrociati
e ci si cammina sopra fino a quando si saturano di acqua e vengono sostituite. Ogni
isola ospita un gruppo familiare che si presenta ai visitatori, racconta loro il
proprio stile di vita, mostra le capanne in cui vivono, offre un piccolo spettacolino
canoro e propone alcuni souvenir più o meno prodotti in casa, le barche dei
tour visitano le isole a rotazione per
far sì che tutti a turno abbiano la possibilità di racimolare qualche soldino
per rinvigorire il bilancio familiare e forse, almeno così te la vendono…, per
riuscire a mandare qualcuno dei figli a studiare. La mattinata se ne vola via
fra le acque tranquille del lago e i sorrisi ingenui e accattivanti degli
indigeni, si rientra a Puno per un
saluto ai ragazzi di Medellin, che se non ci si incrocia ancora dovrebbe essere
l’ultimo, poi loro ripartono subito verso la Bolivia mentre io aspetto domani
per dirigermi verso il Cile. Cile vuol dire andare a riprendere la
panamericana, quindi vuol dire tornare a Ovest verso il mare quindi vuol dire
ripassare le Ande, la strada principale tornerebbe verso Nord per poi dirigersi
a Ovest, raggiungere Arequipa e poi Sud fino a Tacna e il confine ma così mi
pare di fare il giro del mondo. La cartina che ho recuperato a Nasca non è quel
che si dice un capolavoro della tecnica topografica e cartografica, la data di
stampa è destinata a rimanere un mistero misterioso e alcuni segni potrebbero
corrispondere ad una bellissima strada asfaltata come ad una impervia
mulattiera di montagna, una linea piuttosto incerta unisce direttamente Puno
con Moquegua tagliando fuori il lungo giro per Arequipa, con qualche difficoltà
riesco ad imboccare la strada che corrisponde a quel geroglifico, mi fermo a
fare benzina e dopo un terzo grado al giovane di bottega stabiliamo che la
strada è buona ed asfaltata. Dai tremila del lago Titicaca si sale fino a 4000
metri, come al solito con le montagne arrivano le nuvole e non sia mai che con
le nuvole non arrivi anche la pioggia, la temperatura, che già a quell’altezza
non era caraibica, crolla vergognosamente. Mi fermo per aggiungere
all’abbigliamento una felpa e la tuta antipioggia, il vasto altipiano che ho
raggiunto è circondato da alte cime innevate, dopo pochi km la pioggia comincia
a solidificarsi e diventa una sottile polvere di ghiaccio che sul casco suona come
fossero piccoli sassolini, supero una selletta e la strada è una pennellata di
asfalto nero sul paesaggio imbiancatosi improvvisamente, durante la notte sono
caduti almeno una trentina di cm di neve e qualcosa è rimasto ancora sulla carreggiata, in fondo
all’altipiano, di fronte a me, altre montagne chiudono la visuale facendo
temere che la strada salga ancora con il rischio di finire in una tormenta di
neve. Da quando sono partito da Puno ho percorso un’ottantina di km e mi ha
superato solo una vettura ma i due camion che incrocio con il pianale ricoperto
da quindici cm di neve attenuano di poco
il senso di solitudine ma in compenso accentuano altre sensazioni negative.
L’altimetro sul GPS arriva a segnare 4700 metri che non sono affatto
bruscolini, la moto fatica a tenere i bassi regimi il che vuol dire che va
tenuta allegra e non intendo dire che sto lì a raccontarle barzellette ma
piuttosto devo tenerla su di giri per non farla spegnere. La cappa di nuvoloni
neri si sposta fortunatamente senza fare grossi danni, oltrepasso la catena di
montagne e il paesaggio cambia radicalmente, niente più neve, niente più
vegetazione ma solo immense, desolanti e desertiche pietraie, la strada comincia a scendere e
finalmente la temperatura comincia farsi più mite, dopo 260 km raggiungo
Moquegua, arrivando alla cittadina
comincio ad incrociare qualche ragazzino che in maniche corte e braghette
stride parecchio con il mio abbigliamento da palombaro, ritrovo anche il sole e
mi fermo per scaldare un po’ le ossa, togliere qualche strato di vestiti e
mangiare qualcosa. Raggiungo e attraverso anche Tacna, il paesaggio è
definitivamente tornato ad essere un deserto secco e polveroso ma almeno non si
muore più di freddo. Al confine comincia la solita trafila burocratica, dopo il
visto all’ufficio immigrazione arriva anche Byron, che non è quel Byron di
Medellin che avevo salutato a Puno ma è un altro Byron che dal nome stavolta
potrebbe essere inglese ma invece è sudafricano e viaggia insieme a Roelof che
dal nome potrebbe essere di qualche strana galassia e invece è sudafricano
anche lui. Byron e Roelof parlano
inglese oppure un’altra cosa assolutamente incomprensibile che mi rifà
propendere per la galassia ma di
spagnolo nemmeno una sillaba quindi li aspetto e li assisto per le pratiche
doganali. Decidiamo di proseguire insieme, ridendo e scherzando e scollinando
qua e là dopo 400 km sono passate le cinque del pomeriggio, il tramonto è
vicino e non che abbia paura del buio ma una buca sull’asfalto o un’animale
randagio possono sempre incrociarti il cammino e non è detto che la cosa sia un
bene quindi se sono da solo di regola non viaggio di notte ma siamo in tre per
cui decidiamo di saltare Arica, che è la prima città in terra cilena, per
raggiungere un altro puntino che, sulla carta, è segnato un centinaio di km più
a Sud. La Panamericana si allontana dal mare immersa sempre fra sabbia e dune,
molto romanticamente ma anche molto velocemente il sole tramonta e l’arancione
lascia spazio al blu notte, arriviamo sul ciglio di un profondo canyon, dal GPS
mancano pochi km e mi viene in mente che dovremmo cominciare a vedere le luci
di Cuya ma il tutto si riduce alle mille stelle sopra di noi e ai tre fanali
delle nostre moto, alla fine dei pochi km ai lati della strada si
materializzano una stazione della polizia dall’aria molto abbandonata e un paio
di chioschi dall’aria molto spartana. Qualche baracca, non una casa e men che
meno un albergo o una locanda o qualsiasi altra cosa che prometta un tetto
sotto il quale dormire. Dietro a noi cento km di deserto prima di trovare una
città, davanti a noi invece duecento km di deserto prima di trovare una città
con un distributore di benzina per dissetare le due KTM che stanno esaurendo
l’autonomia. Il diametro del pallino sulla carta prometteva molto di più di una
stazione di polizia e di un paio di chioschi, ci guardiamo negli occhi stupiti
e increduli prima di metterci a ridere per la situazione in cui siamo capitati.
Gli occhi passano velocemente dalla carta alle baracche a cercare un’ulteriore
conferma che siamo proprio nel posto giusto ma non ci sono dubbi, lì siamo e lì
dobbiamo arrangiarci. Comincio a cercare una sistemazione, il primo chiosco mi
risponde che no ma nell’altro dovrei trovare Pablo che forse ci combina, Pablo
ci offre una stanza nel retro di una baracca che ovviamente andrà benissimo,
anche per la cena la località non è attrezzatissima, il solito Pablo può
combinarci un paio di sandwich ma il suo chiosco non ha la licenza per gli
alcolici quindi le birre arrivano direttamente dalla sua riserva personale.
Sono partito dai tremila metri del Lago Titicaca, sono salito fino a 4700 per
passare la Cordigliera e sto andando a dormire sul livello del mare, non c’è
che dire, una gran bella escursione!