sabato 19 maggio 2012

...beh...la televisione va alimentata in qualche modo...

..un pò di orto...

...l'essenziale...

...e il televisore...

...e se dico isola è isola!

...e se dico neve è neve!

idem.

Cuya, la metropoli!

Altra sveglia, stavolta non a notte fonda ma all’alba per saltare sul minibus per il porto, con grande sorpresa mi ritrovo seduti a fianco Byron  e suo figlio Andrés anche loro in gita turistica, molto stupore che si mescola al piacere di rivedersi  e nel frattempo si arriva all’imbarcadero. A fianco del molo sono ormeggiate decine di lance che non sembrano essere proprio fresche di cantiere ma oramai siamo abituati ad una certa “trasandatezza , ci sfiliamo dalle altre barche, il motore borbotta in maniera poco convincente ma in qualche maniera cominciamo a navigare, è una bella giornata di sole e le acque sono tranquille e di un azzurro intenso. Da centinaia di anni gli Uros vivono isolati dal mondo sui loro arcipelaghi di isole galleggianti, dalle rive del lago tagliano le zolle di terra e le legano fra di loro a formare una specie di zattera galleggiante, le radici della canna, crescendo, saldano fra di loro le zolle e si ispessiscono fino a raggiungere i quattro metri di profondità, la parte della canna che sta quasi sommersa è bianca, eliminando la parte esterna fibrosa rimane quella interna che ha una consistenza spugnosa e si mangia mentre con la parte aerea più legnosa ci costruiscono le capanne, le barche oppure vengono distese sull’isola in vari strati incrociati e ci si cammina sopra fino a quando si saturano di acqua e vengono sostituite. Ogni isola ospita un gruppo familiare che si presenta ai visitatori, racconta loro il proprio stile di vita, mostra le capanne in cui vivono, offre un piccolo spettacolino canoro e propone alcuni souvenir più o meno prodotti in casa, le barche dei tour  visitano le isole a rotazione per far sì che tutti a turno abbiano la possibilità di racimolare qualche soldino per rinvigorire il bilancio familiare e forse, almeno così te la vendono…, per riuscire a mandare qualcuno dei figli a studiare. La mattinata se ne vola via fra le acque tranquille del lago e i sorrisi ingenui e accattivanti degli indigeni,  si rientra a Puno per un saluto ai ragazzi di Medellin, che se non ci si incrocia ancora dovrebbe essere l’ultimo, poi loro ripartono subito verso la Bolivia mentre io aspetto domani per dirigermi verso il Cile. Cile vuol dire andare a riprendere la panamericana, quindi vuol dire tornare a Ovest verso il mare quindi vuol dire ripassare le Ande, la strada principale tornerebbe verso Nord per poi dirigersi a Ovest, raggiungere Arequipa e poi Sud fino a Tacna e il confine ma così mi pare di fare il giro del mondo. La cartina che ho recuperato a Nasca non è quel che si dice un capolavoro della tecnica topografica e cartografica, la data di stampa è destinata a rimanere un mistero misterioso e alcuni segni potrebbero corrispondere ad una bellissima strada asfaltata come ad una impervia mulattiera di montagna, una linea piuttosto incerta unisce direttamente Puno con Moquegua tagliando fuori il lungo giro per Arequipa, con qualche difficoltà riesco ad imboccare la strada che corrisponde a quel geroglifico, mi fermo a fare benzina e dopo un terzo grado al giovane di bottega stabiliamo che la strada è buona ed asfaltata. Dai tremila del lago Titicaca si sale fino a 4000 metri, come al solito con le montagne arrivano le nuvole e non sia mai che con le nuvole non arrivi anche la pioggia, la temperatura, che già a quell’altezza non era caraibica, crolla vergognosamente. Mi fermo per aggiungere all’abbigliamento una felpa e la tuta antipioggia, il vasto altipiano che ho raggiunto è circondato da alte cime innevate, dopo pochi km la pioggia comincia a solidificarsi e diventa una sottile polvere di ghiaccio che sul casco suona come fossero piccoli sassolini, supero una selletta e la strada è una pennellata di asfalto nero sul paesaggio imbiancatosi improvvisamente, durante la notte sono caduti almeno una trentina di cm di neve e qualcosa  è rimasto ancora sulla carreggiata, in fondo all’altipiano, di fronte a me, altre montagne chiudono la visuale facendo temere che la strada salga ancora con il rischio di finire in una tormenta di neve. Da quando sono partito da Puno ho percorso un’ottantina di km e mi ha superato solo una vettura ma i due camion che incrocio con il pianale ricoperto da quindici cm di neve  attenuano di poco il senso di solitudine ma in compenso accentuano altre sensazioni negative. L’altimetro sul GPS arriva a segnare 4700 metri che non sono affatto bruscolini, la moto fatica a tenere i bassi regimi il che vuol dire che va tenuta allegra e non intendo dire che sto lì a raccontarle barzellette ma piuttosto devo tenerla su di giri per non farla spegnere. La cappa di nuvoloni neri si sposta fortunatamente senza fare grossi danni, oltrepasso la catena di montagne e il paesaggio cambia radicalmente, niente più neve, niente più vegetazione ma solo immense, desolanti e desertiche  pietraie, la strada comincia a scendere e finalmente la temperatura comincia farsi più mite, dopo 260 km raggiungo Moquegua,  arrivando alla cittadina comincio ad incrociare qualche ragazzino che in maniche corte e braghette stride parecchio con il mio abbigliamento da palombaro, ritrovo anche il sole e mi fermo per scaldare un po’ le ossa, togliere qualche strato di vestiti e mangiare qualcosa. Raggiungo e attraverso anche Tacna, il paesaggio è definitivamente tornato ad essere un deserto secco e polveroso ma almeno non si muore più di freddo. Al confine comincia la solita trafila burocratica, dopo il visto all’ufficio immigrazione arriva anche Byron, che non è quel Byron di Medellin che avevo salutato a Puno ma è un altro Byron che dal nome stavolta potrebbe essere inglese ma invece è sudafricano e viaggia insieme a Roelof che dal nome potrebbe essere di qualche strana galassia e invece è sudafricano anche lui. Byron e Roelof  parlano inglese oppure un’altra cosa assolutamente incomprensibile che mi rifà propendere per la galassia  ma di spagnolo nemmeno una sillaba quindi li aspetto e li assisto per le pratiche doganali. Decidiamo di proseguire insieme, ridendo e scherzando e scollinando qua e là dopo 400 km sono passate le cinque del pomeriggio, il tramonto è vicino e non che abbia paura del buio ma una buca sull’asfalto o un’animale randagio possono sempre incrociarti il cammino e non è detto che la cosa sia un bene quindi se sono da solo di regola non viaggio di notte ma siamo in tre per cui decidiamo di saltare Arica, che è la prima città in terra cilena, per raggiungere un altro puntino che, sulla carta, è segnato un centinaio di km più a Sud. La Panamericana si allontana dal mare immersa sempre fra sabbia e dune, molto romanticamente ma anche molto velocemente il sole tramonta e l’arancione lascia spazio al blu notte, arriviamo sul ciglio di un profondo canyon, dal GPS mancano pochi km e mi viene in mente che dovremmo cominciare a vedere le luci di Cuya ma il tutto si riduce alle mille stelle sopra di noi e ai tre fanali delle nostre moto, alla fine dei pochi km ai lati della strada si materializzano una stazione della polizia dall’aria molto abbandonata e un paio di chioschi dall’aria molto spartana. Qualche baracca, non una casa e men che meno un albergo o una locanda o qualsiasi altra cosa che prometta un tetto sotto il quale dormire. Dietro a noi cento km di deserto prima di trovare una città, davanti a noi invece duecento km di deserto prima di trovare una città con un distributore di benzina per dissetare le due KTM che stanno esaurendo l’autonomia. Il diametro del pallino sulla carta prometteva molto di più di una stazione di polizia e di un paio di chioschi, ci guardiamo negli occhi stupiti e increduli prima di metterci a ridere per la situazione in cui siamo capitati. Gli occhi passano velocemente dalla carta alle baracche a cercare un’ulteriore conferma che siamo proprio nel posto giusto ma non ci sono dubbi, lì siamo e lì dobbiamo arrangiarci. Comincio a cercare una sistemazione, il primo chiosco mi risponde che no ma nell’altro dovrei trovare Pablo che forse ci combina, Pablo ci offre una stanza nel retro di una baracca che ovviamente andrà benissimo, anche per la cena la località non è attrezzatissima, il solito Pablo può combinarci un paio di sandwich ma il suo chiosco non ha la licenza per gli alcolici quindi le birre arrivano direttamente dalla sua riserva personale. Sono partito dai tremila metri del Lago Titicaca, sono salito fino a 4700 per passare la Cordigliera e sto andando a dormire sul livello del mare, non c’è che dire,  una gran bella escursione!