sabato 9 febbraio 2013

Puerto Natales

Da Puerto Natales a Punta Arenas

Decido per una sosta a Puerto Natales, non che sia un granché ma ha il suo fascino, eccetto qualche edificio vagamente più moderno dalle parti di quello che dovrebbe essere il centro ma che in effetti corrisponde più che altro alle due strade principali, l’antica ossatura del paese è formata dalle vecchie baracche di legno ad un piano rivestite e protette con lamiere inchiodate e dipinte con una gamma di colori piuttosto insoliti che fa molto pensare alle pitture avanzate dalla verniciatura delle barche. La mattinata passa che più inutilmente non si può all’insegna del riposo ma il pomeriggio scatta l’esplorazione e me ne vado un po’ a zonzo. Alla fine del lungomare dopo il molo che uno sgangherato traghetto sopravvissuto miracolosamente a tutte le tempeste del mondo australe utilizza per trasbordare materiali e mezzi vari sull’isola di fronte e dopo un orribile capannone che serve da quartier generale ad una compagnia di allevamento salmoni, una dozzina di barconi da pesca tirati in secca riprendono fiato ed energie prima di affrontare la nuova stagione di pesca. Dall’anziano proprietario del Drake vengo a sapere che ha solo dodici anni, il Drake ovviamente…non il suo proprietario. A ripensarci bene però se il Drake, che dall’aspetto potrebbe aver preceduto le caravelle di Colombo nella scoperta del continente americano, ha solo dodici anni il suo proprietario, a dispetto delle rughe profonde come il Gran Canyon, potrebbe essere appena uscito dalle aule di un liceo…ma tralasciamo queste inutili speculazioni. Pablo, che ovviamente non è il mio amico brasiliano ma il proprietario del Drake, mi racconta della dura vita del pescatore, come in tutti i mari del mondo purtroppo il mestiere diventa sempre più duro e più difficile, il pesce che una volta si pescava praticamente di fronte a casa ormai è talmente scarso che le uscite durano anche una settimana, per riuscire a buttare nelle stive qualche sacco di ricci di mare, che per la cronaca valgono poi circa 25 centesimi di euro al chilo, o di centollas, i granchi di mare giganti dell’oceano, da spedire poi sull’avido mercato giapponese, bisogna sciropparsi qualche centinaia di miglia di mare, e il mare di quelle parti, come dimostra l’aspetto del Drake, non è un mare qualunque. Il pomeriggio avanza, rientro al villaggio e rientra anche il variegato pianeta degli altri turisti, una volta ci si arrampicava su per le montagne, si facevano escursioni nei boschi e nelle valli, si camminava lungo i torrenti per raggiungere i laghi più lontani, adesso si fa “trekking” che nella sostanza è la stessa cosa ma fare “trekking” fa molta più figo, vuoi mettere? Una volta si prendeva lo zaino da alpino del nonno, un paio di pedule più o meno della tua misura ereditate da qualche amico e casomai si compensava con i calzini più o meno grossi, un paio di pantaloni robusti, un camicione da battaglia e una giacchetta da strapazzo. I colori erano quelli cosiddetti “da bosco”: marrone, verde, svariate tonalità di grigio e via così. Il trekking prevede un abbigliamento assolutamente tecnico. Guai a farsi vedere in giro per un bosco senza almeno delle pedule in goretex da un milione di dollari possibilmente di colore arancione con inserti azzurri e lacci fosforescenti rigorosamente autoallaccianti, il pantalone è ovviamente una combinazione di vari tessuti e di diverso colore a seconda della parte che devono coprire, proteggere, scaldare, rinfrescare, evidenziare o mimetizzare. Le magliette sono ultratecniche, doppi rinforzi, triple cuciture, traspiranti oppure antitraspiranti a seconda dell’ora e dell’occasione sociale e più sponsorizzate di un pilota di rally. Gli zaini sono degni di una spedizione antartica e va da sé che un appassionato di trekking non si permetterebbe nemmeno di andare al bagno e menchemeno oserebbe farsi vedere in giro senza il suo zaino modello esplorazioni stellari. I più evoluti ( sempre si fa per dire…) sono quelli che camminano con le racchette, ok… si chiama camminata nordica e dicono che fa bene, ma forte di una lunga e proficua esperienza diretta personale posso affermare che per raggiungere il bar dell’albergo o quello trendy della piazzetta le racchette da sci per camminare servono proprio una sega anzi, nel rientro leggermente barcollante che segue sempre l’happy hour possono rivelarsi fin pericolose! Chiusa comunque la questione “trekking” chiudiamo anche la giornata con una buona cena di pesce e una solenne dormita, domani si riparte. La prima parte della mattinata è dedicata alla visita della grotta del milodonte, un grande antro naturale che si raggiunge dopo una decina di km di strada sterrata, la cronaca scientifica del secolo scorso ci racconta che vi furono ritrovati alcuni resti mummificati di un animale preistorico non ben definito, il ritrovamento diede inizio ad una sequela di spedizioni e di studi di vari personaggi che con convinzioni diverse riferirono al mondo scientifico e cercarono di ricostruire la bestia originaria. Quello che interessa a noi invece è che un frammento di pelle di quell’animale finì sul caminetto della zia di Bruce Chatwin, potete anche non conoscere la zia di Chatwin ma dovete sapere almeno che Chatwin fu uno dei più grandi viaggiatori della prima metà del novecento, che scrisse dei suoi viaggi ed in particolari in uno dei suoi libri sulla Patagonia ci racconta come fu proprio quel frammento di pelle che trovava sul caminetto della zia a stimolare il suo immaginario di bambino ed a lanciarlo poi nell’olimpo dei viaggiatori e degli scrittori, alla fine è andata che ho letto quello che ha scritto che a sua volta ha non ha lasciato indifferente il mio immaginario forse non tanto di bambino ma comunque di appassionato di mondo e, per dirla in due parole, eccoci qui! Non è quindi solo una visita ma piuttosto una sorta di omaggio dovuto a chi, sebbene molto indirettamente, ha propiziato tutto questo. A parte comunque la riproduzione piuttosto discutibile del Milodonte l’atmosfera della grotta risulta interessante almeno quanto la ricostruzione della sua formazione causata dall’erosione degli strati sottostanti alla montagna da parte dell’acqua. Arrivano in qualche modo le 11.30, è tempo di rimontare in sella per raggiungere Punta Arenas, antico porto cileno affacciato sulle rive dello stretto di Magellano. Stasera si dorme di fronte alla Terra del Fuoco, mica balle! Lasciando l’oceano alle spalle la strada si infila in mezzo alle colline alle spalle di Puerto Natales e con qualche saliscendi si perde nel nulla della solita pampa. Per i primi settanta km non succede assolutamente nulla, al settantesimo km succede tutto, anzi, succede esattamente quella cosa alla quale non ho mai voluto pensare ma che purtroppo può succedere durante un viaggio del genere: da un momento all’altro la moto si spegne! Il motore smette di spingere, il rumore dello scarico si fa cupo e la moto rallenta di colpo, ancora un paio di colpi sull’abbrivio giusto per dare l’illusione di una ripresa finché il verdetto arriva nella sua definitiva crudezza. Non riesco a crederci, adesso… dopo trentatremila km…ad uno sputo dall’arrivo…la madre di tutte le beffe… Accosto sulla destra avvolto da una tempesta elettromagnetica globale, tutti gli dei di tutte le religioni conosciute vengono coinvolti, per non fare ingiustizie, e anche perché non si sa mai…, decido di chiamare in causa anche gli esponenti eventuali delle religioni non ancora registrate mentre scannerizzo mentalmente la moto per cercare di capire cosa possa essere successo. Scendo, metto la moto sul cavalletto e comincio a controllare i contatti, i morsetti della batteria, un pezzo per volta scarico i bagagli, poi la sella, poi il serbatoio, controllo tutti i cavi ma tutto sembra a posto, la batteria è scarica, lo strumento che la controlla segna circa 8 volt contro i 13 di ordinanza, probabilmente l’alternatore non caricava e lungo la strada il fanale acceso e la bobina con l’accensione l’hanno prosciugata. Non c’è molto da fare quindi con calma ricompongo la moto, rimonto serbatoio, sella e bagagli, sulla corsia opposta passano incrociando una ventina di motociclette, qualcuno saluta ma nessuno si ferma, io continuo a sistemare le cose, poi vedremo come muoverci. Di provare a mettere in moto con il motorino di avviamento con la batteria in queste condizioni non se ne parla, scaricare i bagagli e mettere in moto a spinta da solo menchemeno, oltretutto se non c’è batteria non c’è nemmeno corrente per le candele quindi sarebbe fatica inutile. Le moto sono state fino ad ora l’unico segno di vita, passa un pick up e lo fermo, spiego la questione ma sono turisti tedeschi con una macchina a noleggio quindi non hanno nemmeno dimestichezza con la zona, hanno un cellulare ma come detto siamo in mezzo al nulla e non c‘è segnale fino alle città, Puerto Natales 70 km alle spalle, Punta Arenas 130 km di fronte, in mezzo forse qualche fattoria nascosta. Lascio ripartire il pick up per aspettare qualcun altro e comincio a riflettere, rimanendo ferma forse la batteria si è ricaricata almeno un po’ e comincio a pensare di provarci con la leva di accensione. Fino a quel momento non avevo nemmeno preso in considerazione la cosa, nell’anno e mezzo di preparazione della moto avevo deciso di dotarla di questa opzione che pochi modelli in origine possedevano, dalla Germania avevo recuperato un cambio che ne era dotato e dopo averlo revisionato l’avevo montato, il punto della faccenda però è che nonostante molteplici tentativi in svariate condizioni mai, e sottolineo mai, ero riuscito a mettere in moto la motoretta con la leva, troppa compressione nei pistoni, troppo poco slancio con la leva, una posizione della stessa tutt’altro che ergonomica e quindi nulla da fare. Ma la situazione è decisamente quella perfetta per un tentativo: siamo in mezzo al nulla che più nulla non si può e in compagnia di nessuno, se anche passasse qualcuno prima che gli spieghi la situazione, prima che raggiunga un posto abitato, prima che recuperi un elettrauto oppure un meccanico con carrello, prima che il suddetto elettrauto o meccanico con carrello parta e mi raggiunga…come disse il poeta: si fa sera! E quindi ci provo! Giro la chiave, spengo i fari, controllo che tutto quello che deve essere in ordine sia in ordine, salgo con il piede sinistro sulla pedana sinistra e senza scavalcare la moto appoggio il piede destro sulla leva, spingo fino a trovare il punto morto superiore, fatevi spiegare da un amico preparato cosa vuol dire perché adesso non posso farlo che mi crolla la suspense…, supero dunque con la leva il punto morto superiore e spingo…niente! Ricontrollo tutto, ri-ricerco il punto morto superiore, lo ripasso, rispingo…ri-niente! Lo sapevo, ma nella vita nelle cose bisogna crederci fino in fondo, se quella leva ce la hanno messa vuol dire che un motivo c’era, e se qualcuno ci riusciva a metterla in moto vuol dire che in qualche maniera posso farcela anche io, quindi ri-ri-provo, tutto è in ordine, chiave girata, folle, un filo di gas, carico la leva, si abbassa…un rumore di gattino che fa le fusa comincia a uscire dal tubo di scarico…non ci posso credere…è in moto!!! Una parte di me comincia a fare le capriole in mezzo alla strada ( tanto non passa nessuno) mentre l’altra parte dà una bella accelerata, il motore va su di giri, la spia dell’alternatore si spegne quindi vuol dire che l’alternatore sta caricando, forse…, sullo strumento il voltaggio sta salendo quindi quel forse possiamo toglierlo, con una mano sull’acceleratore per tenere il motore su di giri finisco di vestirmi, col cuore in gola rimonto in sella, scendo dal cavalletto e riparto, ma per dove? Continuare per Punta Arenas a 130 km oppure tornare a Puerto Natales, solo 70 km? Preferisco non fidarmi, decido di ritornare, se succede di nuovo mi sa che da solo non ne vengo più fuori quindi mi preferisco avvicinare alla città. I settanta km sono con un occhio alla strada e uno al voltmetro. Pian piano la batteria si sta ricaricando, sembra che tutto vada bene, rientro in città, recupero un paio di officine ma sono ancora chiuse per la pausa pranzo, finalmente nella terza trovo qualcuno, spiego il tutto, si controlla alternatore e batteria, il responso è che tutto sembra a posto e quindi si può ripartire, mi faccio lasciare il numero di telefono e l’accordo è che se succede di nuovo nonostante le rassicurazioni e i controlli io lo chiamo e lui mi viene a recuperare. Con il solito occhio alla strada e l’altro agli strumenti riparto, in meno di tre ore raggiungo Punta Arenas, durante gli ultimi km comincia anche a piovigginare, mi faccio spiegare dove si trova la sede della compagnia dei traghetti che passano lo stretto, la raggiungo sotto un acquazzone, l’unico traghetto che parte domani naturalmente è pieno, insisto, l’impiegato dell’ufficio telefona al responsabile del carico, per un passeggero ed una moto il posto probabilmente si trova, faccio il biglietto e vado a cercare un paio di tramezzini, sono le sei di sera e dalla colazione in poi mi sono dimenticato di mangiare, ma adesso è tempo di cercare un albergo. Domani potrebbe essere un gran giorno.

lunedì 21 gennaio 2013

...e noi...
Perito Moreno 5
Perito Moreno 3
Perito Moreno 2
Perito Moreno 1

La mattina successiva le cose vanno piuttosto a rilento, Pablo deve cambiare l’olio alla moto e possibilmente anche la gomma posteriore che è ormai a pezzi, Lucho ha un paio di commissioni sconosciute poi deve sistemare la catena che quasi striscia per terra, io vado a fare due passi verso il centro a caccia di una farmacia che spacci una qualche miracolosa pomata australe che riesca a farmi passare le afte, mangiare e bere sono la solita tortura e viaggio con un bottiglione di collutorio in tasca per tentare di rinfrescare la bocca e cercare di alleviare il fastidio. Lucho mi ha passato una crema che si porta dietro e che secondo lui è l’unica che ti fa passare tutto calvizie compresa ma non sono molto convinto, la farmacista scandalizzata mi comunica che trattasi di pomata per uso esterno e serve per far passare le piaghe ai lattanti ma con le afte non ci azzecca proprio quindi me ne rifila un’altra e a spanne credo sia la quarta che provo. Con le afte purtroppo non finiscono gli acciacchi, cominciano a vedersi dei piccoli sfoghi sotto i polpastrelli delle dita grandi come capocchie di spillo, l’effetto, poco entusiasmante, è che ogni volta tocchi qualcosa ho la sensazione di appoggiarmi ad un porcospino, la spalla destra, l’unica parte del corpo che non riesco a sgranchire mentre guido, è anestetizzata da settimane inoltre da qualche giorno mi si è scaricata addosso una certa spossatezza generale, insomma…quasi quel che si dice “ uno straccio d’uomo”, ci vorrebbe decisamente qualche giorno di riposo ma si sta cominciando a sentire il profumo della fine del mondo e non è il momento di stare lì a cincischiare. A fine mattinata ci ritroviamo tutti all’ostello, i programmi cambiano come le nuvole nel cielo della terra che ci ospita. Pablo ha pochi giorni per fare qualche migliaio di km e arrivare a Brasilia prima che finiscano le sue ferie e ha anche un paio di indirizzi che ha estorto a qualche fanciulla conosciuta sulla strada con la promessa di un appuntamento volante ma il gruppo ormai è lanciato e se gli amici vanno ad Ushuaia si va a Ushuaia con gli amici. Lucho vorrebbe fare tutta una tirata sulla via più breve rimanendo in Argentina fino a Rio Gallego, passare in Cile, traghettare sullo Stretto di Magellano,  attraversare la Terra del Fuoco e arrivare ad Ushuaia, io preferirei tornare verso ovest, rientrare prima in Cile, arrivare di nuovo sul Pacifico e scendere più lentamente, ma prima di decidere aspetto le mosse degli altri. Pablo ha cambiato l’olio ma la gomma è introvabile, forse a Rio Gallego, Lucho ha sistemato la catena e quindi può scattare l’escursione pomeridiana al Ghiacciaio Perito Moreno. Arriviamo all’entrata del Parco Nazionale Los Glaciares e scopriamo che i prezzi degli ingressi sono differenziati, gli argentini pagano una cifra quasi simbolica, Pablo che essendo brasiliano fa parte del Mercosur, una specie di comunità economica sudamericana, poco di più mentre io che arrivo da oltreoceano e mi sono sbobbato qualche decina di migliaia di km pago il triplo di Lucho. La polemica con il guardiano è inevitabile e la sua convinzione nel sostenere le inesistenti ragioni della cosa la rendono anche piuttosto ruvida ma altrettanto inutile, lo spettacolo del ghiacciaio in compenso è maestoso, un promontorio di terra che lo fronteggia diventa un osservatorio naturale privilegiato di un fiume di ghiaccio che per decine di km, praticamente tutti a vista, scende sinuoso dalle cime delle Ande e con un fronte alto un centinaio di metri e largo cinque km finisce la sua storia millenaria gettandosi nelle torbide acque del Lago Argentino. Passa il pomeriggio e la serata si chiude all’ostello con Lucho che prepara per tutti un piatto di tortelloni con un sugo al pomodoro mescolato ad una non ben identificata “crema”. Il colore è fuori gamma e improbabile al tempo stesso, il gusto assolutamente sconosciuto ma la fame li rende commestibili. I programmi si vanno delineando, Pablo, con grande rammarico deve rinunciare ad Ushuaia per correre a casa a risolvere qualche problema con un paio di ex mogli, pare che in particolare la prima, che guarda caso è risposata con un avvocato, stia accampando serie richieste di alimenti che Pablo preferirebbe invece investire in una nuova moto. Lucho insiste sulla via breve e veloce e decide di partire la mattina presto mentre io decido di lasciarlo andare da solo per ritrovarsi probabilmente a Ushuaia. Dormiamo tutti nella stessa camerata, al mattino, quando mi alzo, Lucho si sta ancora rivoltando nel letto, la voce è più simile al rantolo di un moribondo che a quella di un motociclista che dovrebbe fare un migliaio di km ma riesce a spiegarmi che nella notte ha deciso di fermarsi ancora un giorno, io faccio colazione, trovo Pablo che al solito sta importunando una delle cameriere e ci salutiamo come conviene, dopo due giorni di compagnia sono di nuovo solo, un po’ di nostalgia ma va bene così, ritrovo i miei ritmi, i miei programmi, i miei pensieri. In pochi km ritrovo ancora la pampa ma la strada sale impercettibilmente e comincia qualche timida curva che la infila in qualche fondovalle, le Ande si stanno abbassando prima di andare a tuffarsi nell’Oceano Pacifico e diventare quella corona di isole che finiscono con Cabo de Hornos, il micidiale spartiacque che segna il confine fra l’Atlantico dal Pacifico. Attraverso El Turbio, quattro baracche che vivono in funzione di una immensa miniera di carbone e di una centrale termoelettrica. Raggiungo il confine e in meno di mezzora sbrigo le pratiche e rientro in Cile, scollino e mi riaffaccio sul Pacifico, Puerto Natales, case basse di legno e lamiera dai cento colori sono srotolate sulla sponda di una lunga baia protetta da un’isola che sembra una montagna. Sullo sfondo i ghiacciai di altre isole spiccano sul blu cupo del mare, ghiaccio e mare, un’accoppiata piuttosto insolita…e siamo in piena estate! Altri 350 km comunque sono nello zaino, la fine del mondo è vicina ma non lo dicono i Maya, lo dice la cartina che ho davanti agli occhi!